Di Attilio Andriolo medico, impegnato anche nel sociale, organizzatore di eventi culturali, maestro di vita e di sport per molti giovani, parla la sua vita che è, come dicevano i nostri vecchi, un libro stampato: nessuna zona d’ombra, nessuna ambiguità.
Ma Attilio Andriolo ha, come tutti (o quasi), una sua dimensione umana, familiare, intima che gli amici possono magari intuire, che traspare talora dai suoi gesti, ma che trova una precisa, netta canalizzazione nelle sue poesie e in questo suo ultimo libro di poesie, Momenti dell’Anima (di anno e di editore ignoto), nella fattispecie.
Di esso, il duplice livello formale (tra realismo e simbolismo) e linguistico (tra stile alto, letterario e stile medio, discorsivo, prossimo al parlato) colpisce immediatamente il lettore.
Bisogna, però, riconoscere che là dove tali discordanti mozioni riescono a saldarsi in una omogenea cifra stilistica – e ciò accade frequentemente –, Andriolo riesce a toccare i vertici dell’espressione poetica: il contingente, perde – in altri termini – i suoi connotati personalistici e diventa forma assoluta della condizione umana. E nel contempo un ritmo inedito, che diresti innato, accompagna e sottolinea queste autentiche epifanie dell’essere.
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La misura realistico-simbolica assume le valenze meditative del poemetto intessuto attorno a un linguaggio medio, usuale, discorsivo, in E col tempo impari …, uno dei testi più attraenti del libro.
È, invero, il sermone laico che un padre rivolge al figlio o un maestro all’allievo; un sermone al quale l’anafora insistita della locuzione «felicità non è», alternata, in opposizione, alla locuzione simmetrica «felicità è» imprime il giusto andamento poetico:
La felicità non è quella delle emozioni forti,
che durano un attimo e poi svaniscono …
[…]
Col tempo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose …
… e impari che il profumo del caffè al mattino è un sorso di felicità,
[…]
E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, ma, anche, di pugni allo stomaco,
di presenze vicine anche e se lontane,
e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi più di tante ore.
[…]
E impari che nonostante le tue difese
[…]
Quel gabbiano che c’è in te volerà sempre più in alto.
E col tempo, impari a non smettere mai di sognare.
Dal che, si evince chiaramente come Andriolo si muova, con misura e risultati notevoli, sul terreno della poesia moderna (inaugurato da Pascoli ed esaltato da Pasolini), che rifugge da frammentismi e misticismi orfici, per affidarsi alle volute ampie, discorsive del poema di intonazione narrativa: assai perspicui, peraltro, i tratti realistici della quotidianità familiare (il «caffè del mattino», «una foto ingiallita», «gli antichi odori di una cucina», «un quadro», «il muso del tuo cane o del gatto», «un libro», il «telefono»), illuminati da fresche immagini, dalla limpida caratura simbolica («un sorso di felicità», «una lieve felicità», «piccole esplosioni d’amore», «presenze vicine anche se lontane», «attimi di felicità», «quel gabbiano che c’è in te»).
Meno armonico, sul piano stilistico, appare il poemetto Figlio mio, in cui la vernice letteraria, simbolica, smussa l’afflato paterno:
È vano arrotolarsi tra le voluttà
dell’effimero che i veli
dell’indifferenza vestono
dei colori dell’arcobaleno.
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La dimensione propriamente esistenziale attraversa in lungo e in largo il libro di Andriolo, evidenziandosi in alcune liriche di limpida fattura: si veda, in primis, Il mio mare, dove gli accenti realistici, resi con stile discorsivo («scorrono tra i vicoli vivi e ridenti / e l’antico profumo di quella casa, / che mi appartenne») si coniugano con assunti simbolici («Cos’è che sfiora la mia pelle, / che mi fa sentire bambino, / che mi dà forza per rinascere?»). Anche se non mancano indulgenze a vaghi, se non opachi, parametri letterari («Fili concentrici congiungono destini lontani»; «mentre un flusso animato di pensieri / scorre nel divenire intrecciato di vite»). Incantevoli, ad ogni modo i versi in cui il nesso realistico simbolico si realizza compiutamente, dentro una metrica armoniosa: «Nel dedalo di vie risuonano ritmici passi, / mi addormento / al rumore sempre uguale delle onde, / che cullano ricordi».
La stessa – forse, più concentrata – temperie stilistica è in Rinella, uno dei vertici, in assoluto, della raccolta, per la fusione totale del reale nel simbolo e viceversa: «La piccola isola / baciata dal vento / consuma il suo essere / e i suoi giorni fanciulli»; «l’antico odore / di quella casa che fu mia».
Per converso, una certa inclinazione a usurati moduli espressivi si coglie nel poemetto Il mare, in cui il linguaggio libresco appare predominante («bramando al suo respiro»; «per l’aere s’effonde»; «a mirar s’appresta»; «opalescente traspare»; «Quel tramonto lambisce»). Fortunatamente, nell’explicit del componimento, ritorna la vena poetica caratteristica di Andriolo:
Il silenzio avvolge il mistero,
mentre lontano appare il sereno
ed io affondo i miei pensieri
nella profondità degli abissi marini.
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Convincenti si rivelano le due poesie in lingua siciliana (dialetto messinese-milazzese, se si vuole), presenti nella raccolta (U cantu d’amuri pa’ propria terra e U vantu da me terra, di cui Andriolo dà anche una gradevole traduzione in lingua italiana). La bellezza primigenia dell’isola, uscita dalle mani del dio del mare come «nidu d’amuri /pi’ la duci amata», trova nel dialetto una diretta versione poetica:
Tinciu i cunfini du mari
Cu’ i culuri d’arbalenu
E li vistiu di curallu.
‘Nnu menzu ci misi
Mungibeddu ammantatu
Cu canduri da nivi.
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Sono anche presenti nella silloge di Andriolo componimenti in cui una più netta vocazione sociale si coniuga con la dimensione esistenziale del poeta.
Di fatto, in Voglio andar via, l’elegia del tempo perduto si associa alla condanna – martellante, per versi brevi – del presente deturpato «dalle miserie, / dalle ingiustizie, / dalle cattiverie», dalla violenza, dalle guerre, dalla violazione della natura, diventando dichiarazione orgogliosa di inappartenenza, simbolico desiderio di fuga, «verso un’altra vita, / qualunque essa sia» ().
Una manifestazione altissima di poesia sociale è Asya, un ardito, fremente poemetto, in cui l’autore, per uno di quei tipici fenomeni di dissociazione della personalità, se non di schizofrenia artistica (si pensi a Dante che diventa Francesca nel Canto quinto dell’Inferno), assume il punto di vista e le parole della madre mediorientale, la cui figlioletta, Asya, appunto, viene stritolata da una bomba che le esplode tra le mani: «La madre piangeva, / ma le sue grida non arrivavano al cielo / ferito dagli aerei di guerra. La madre gridava il nome della figlia: / “Asya, Asya mia adorata!”./ “Maledetta guerra, maledetta … / Pace, pace per il mio popolo”».
La stessa caratura meditativo-discorsiva è in I falsi buoni, dove le movenze quotidiane del dettato a stento contengono l’indignazione dell’autore contro gli ipocriti che condannano a parole – solo a parole – la guerra:
Un senso di sconfitta mi assale.
Non già verso i malvagi, sempre tali,
che uccidono gl’inermi a centinaia
[…]
Ma verso i buoni che mi circondano
gridando sempre e solo no alla guerra,
e intanto sono pronti ad azzannare
come bestie gli esseri umani
diventati nemici.
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Una viva, trepidante esigenza di bene e di assoluto trapela in una lirica di Momenti dell’Anima, di chiara intonazione religiosa, Alla tua ricerca, dove i colori fortemente realistici della passione di Cristo accentuano la fame di pace e di giustizia del poeta credente, che assume i toni di Giosuè per lamentare il silenzio, se non l’assenza, di Dio dal mondo moderno,abbrutito dalla violenza:
Mio Signore crocifisso,
deriso, martoriato dagli uomini,
che tu hai perdonato,
e che oggi hai abbandonato
al loro crudele destino.
[…]
Ti prego, sei ancora fra noi?
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Ma è l’amore, tanto nella sua caratura carnale, sensuale, quanto nella sua dimensione familiare, a signoreggiare, tra gli altri temi, nel libro di Andriolo.
Si rilegga Sensualità marine, dove la scarna misura (quasi ungarettiana) dei versi, con l’allusione alle onde che «sfiorano» la spiaggia, esalta il fremito arcano del congiungimento carnale, scongiurando ogni forma di retorica: «Abbraccio caldo di un corpo / Onde che s’infrangono sulla spiaggia. / La sfiorano»: unico caso di componimento breve (tre versi!), in tutta la raccolta.
In altre liriche (Aurora, Noi due insieme, Aspetterò un’altra aurora, Fine di un amore, Ora che non ho più te, La partita dell’amore) il tema amoroso sfiora livelli di pregevole valenza espressiva, ma di eccezionale vigore stilistico si rivela, in specie, Ricordo di lei: per la musicalità perfetta che lo percorre, senza forzature, da cima in fondo, lungo un ritmo che diresti ballabile; per la scansione lineare dei tempi dell’amore, che inizia, come sempre, dallo sguardo e dello sguardo si nutre («Arrossisti al mio sguardo /fremente di vita / di passione / d’amore; «i tuoi occhi luccicavano / e proiettavano lontano / giù verso il mare / i nostri sogni»; «Tu mi abbracciasti / e io mi smarrii / nel tuo sguardo»). Nel verso finale, il corollario iconico di tale, eterno miracolo: «E fu amore».
Giuseppe Rando